“Un sorso di sangue è un buon sostituto. Quello di Johnson sa di rum. Il mio più di vino rancido. Ascolto il fischio nelle orecchie e guardo la neve.”

 

Ottessa Moshfegh è una scrittrice statunitense che spicca nel panorama letterario contemporaneo per l’attrazione che prova nei confronti delle parti più crude, oscure e perturbanti dell’essere umano, affrontate con un sorprendente velo di umorismo. Conosciuta in particolare per il premiato Eileen (2015), per il bestseller Il mio anno di riposo e oblio (2019) ed il più recente Lapvona (2022), Moshfegh vede ora pubblicato in Italia McGlue, il suo romanzo d’esordio del 2014, tradotto da Gioia Guerzoni per Feltrinelli.

In questo romanzo breve, Moshfegh sperimenta attraverso il punto di vista, ovvero quello di un alcolizzato dai ricordi confusi. Questa scelta stilistica inusuale rende interessante una trama altrimenti semplice: un uomo è accusato di averne ucciso un altro.

I due personaggi in questione sono McGlue, nella cui testa siamo intrappolati dall’inizio alla fine del racconto, e Johnson, che non è una semplice vittima, ma il migliore amico del protagonista, per il quale il narratore sembra provare qualcosa di più profondo, viscerale, di cui cogliamo la potenza solo attraverso la nebbia dei suoi ricordi, pensieri ed allucinazioni. La tensione omoerotica tra i due si intreccia con il terribile crimine di cui McGlue viene accusato, che non solo non ricorda, ma a cui addirittura non riesce a credere possibile per gran parte del romanzo.

Dal confronto con le pubblicazioni successive dell’autrice, emerge la sensazione che questa prima prova, pur nella sua maturità, sia un punto di partenza per una scrittura più consapevole. L’alcolismo che viviamo nelle pagine di McGlue, infatti, richiama la dipendenza da barbiturici della protagonista di Il mio anno di riposo e oblio. L’attenzione di Moshfegh per il torbido, che disgusta e al contempo attrae, presente in scene come quella in cui Mcglue tenta di raschiare il proprio cervello con un coltello, alla disperata ricerca di ricordi, si può definire come un semplice “assaggio” se paragonato all’ossessione per il macabro che si riscontra in Lapvona.

In quello che per alcuni aspetti si potrebbe definire un thriller psicologico, Moshfegh ci fa vivere lo strazio di una dipendenza dall’alcol, segnata da una sintassi a singhiozzo, che richiama proprio quello tipico di un ubriacone. Infatti, il flusso di pensieri del protagonista, in cui veniamo immersi così in profondità da rendere talvolta labile il confine tra noi e lui, appare sconnesso, difficile da seguire, travolge il lettore con continui cambi di direzione. Questa sensazione di annegare, la mancanza d’aria che proviamo sott’acqua o quando abbiamo il singhiozzo, sono, d’altronde, la diretta conseguenza della scelta del punto di vista alla base dell’opera ma che, in contrapposizione a questa difficoltà della lettura, hanno il pregio di farci immedesimare con il protagonista, facendoci vivere in prima persona le sue emozioni, i suoi desideri e le sue paure. Ci permettono di sentire il fragore dell’acqua, lo sciabordio della nave, l’instabilità data dall’ubriachezza e dalle onde che smuovono una nave in mezzo all’oceano. Più che di coscienza, quello di McGlue si potrebbe definire come un “flusso di incoscienza”, fatto di immagini e sensazioni annebbiate dall’alcol, dal dolore di una ferita fisica e di una ferita dell’anima, che forse nasconde un segreto così oscuro da non volerlo credere, tanto meno ricordare. Si può arrivare ad uccidere chi ci ha salvato?

McGlue è una lettura che riesce a sorprendere, soprattutto se ci si lascia travolgere dalla sua impetuosa e tormentata corrente.

 

Recensione di Adele Rudella

Ottessa Moshfegh, McGlue, traduzione dall’inglese di Gioia Guerzoni, 2024, Feltrinelli, pp. 134, ISBN: 9788807035760