
“È tutto un frattempo oggi.”
La scrittura è un atto di risarcimento, un modo per restituire presenza a chi la vita ha allontanato. Il mondo che ha fatto (2025) di Roberto Ferrucci è un libro che custodisce il legame di un’amicizia, l’esperienza di due scrittori che interrogano il mondo, lo sguardo che con delicatezza attraversa le immagini della memoria.
Roberto Ferrucci ha esordito nel 1993 con il romanzo Terra rossa (Transeuropa), a cui sono seguiti Giocando a pallone sull’acqua (Marsilio, 1999) e Andate e ritorni, scorribande a nordest (2003). Nel 2007 pubblica Cosa cambia, con un’introduzione di Antonio Tabucchi, poi tradotto in Francia. Oltre alla sua attività di scrittore, è noto per le sue traduzioni di autori francesi come Jean-Philippe Toussaint e Patrick Deville. Dal 2002 insegna scrittura creativa all’Università di Padova. Tra le sue opere più recenti figurano Venezia è laguna (2019), una riflessione sulla fragilità della sua città natale, e Storie che accadono (2022), un omaggio ad Antonio Tabucchi.
In molte di queste tappe Ferrucci è accompagnato da un amico, uno scrittore e interlocutore d’eccezione: Daniele Del Giudice. Il mondo che ha fatto è il suo ultimo libro, edito per La nave di Teseo, candidato su proposta di Claudio Magris al Premio Strega 2025.
Un libro di difficile classificazione: non è solo un memoir, né un saggio, né una semplice raccolta di ricordi. È un’opera stratificata, un mosaico di esperienze, definito dall’autore stesso come «un libro a cassetti, i miei, caotici, come la memoria, come la vita». All’interno, la storia di un rapporto d’amicizia, quello tra Roberto e Daniele, nel quale Del Giudice viene raccontato attraverso un punto di vista inedito, tramite una narrazione che va oltre un resoconto biografico, creando un dialogo sul senso del narrare.
Il narratore ha venticinque anni e si trova nella libreria di Mestre, la Don Chisciotte, dove incontra il trentaseienne Daniele. Da qui si instaurano una serie di tasselli che andranno a creare un disegno condiviso: “Daniele postilla i racconti di Roberto, Roberto presenta in pubblico i libri di Daniele, Daniele dà i suoi scritti a Roberto, Roberto fa la tesi di laurea su Daniele” (Tiziano Scarpa).
L’autore riporta, con la stessa meticolosità che caratterizza la scrittura di Del Giudice, le conversazioni, le cartelle che trova nel sacco condominiale delle immondizie, i fogli di Daniele, le presentazioni e le immagini, poche ma preziose, reliquie di un passato condiviso. Non solo: Roberto informa il lettore sulle modalità con cui reperisce certi dati e dove si trova nel momento in cui mette insieme il mondo che ha fatto, privilegiando un bar che si affaccia alla casa di cura dove Daniele vive gli ultimi dieci della sua vita, di fronte al parco di San Giorgio. Sono pagine in cui fin dall’inizio l’autore si avvicina con delicatezza alla drammaticità di uno scrittore che in pochi anni «dimentica tutte le parole. Proprio lui che le parole, nei suoi libri, le aveva portate al massimo livello di precisione e vividezza, catturando la complessità tecnologica e sentimentale del nostro tempo». Ecco che allora, proprio tramite la scrittura, Roberto Ferrucci compone un ritratto composito e profondo di Daniele Del Giudice, attraversando la dimensione più quotidiana.
Come in tutte le amicizie, il loro legame diviene motore di una rete di incontri che Ferrucci descrive con occhi partecipi ma non invadenti, lasciando ai dettagli di un gesto o di un silenzio il compito di restituire un ricordo. Come quello a Viareggio, con il loro amico regista Wim Wenders, o come l’appuntamento con Mathieu Amalric, regista de Lo stadio di Wimbledon (2001), che dalla scrittura di Del Giudice trae ispirazione per il suo film, «girato pagina dopo pagina». E ancora, a Venezia, durante il progetto Fondamenta, la visione di Ágota Kristóf, che Ferrucci descrive con la sensibilità di chi è consapevole della necessità di lasciare spazio al silenzio. A campo Sant’Angela la si può vedere seduta a fumare una sigaretta, isolata, quasi fuori fuoco «seduta lì, appartata, fuori quadro, e lei sembrava assomigliare in quel momento ai suoi libri. Meglio, sembrava la sua scrittura. Semplice, essenziale, netta. E però evanescente, anche. Non per quel che scriveva, ma per come scriveva».
Cosa resta di uno scrittore dopo le sue parole, i ricordi di una vita che si mescolano? «Gli scrittori – si sa – ci lasciano prima di tutto i libri che hanno scritto», osserva Ferrucci, «Se uno scrittore è poi anche tuo amico, ti lascia molto altro. Quante volte con Daniele abbiamo parlato delle cose, degli oggetti, di come descriverli e nominarli e raccontarli nei libri – i nomi, le cose». Roberto ripercorre gli oggetti che i due hanno condiviso come il cronografo, la macchina da scrivere Underwood e ciò che di più intimo gli è rimasto: il taccuino color sabbia, una cartolina dal suo viaggio in Antartide, il manoscritto Terra rossa, primo romanzo di Ferrucci, appuntato da Del Giudice.
È nella misura, nei dettagli e nella precisa scelta delle parole che si rivela la profondità dello sguardo di Ferrucci. La sua scrittura non indugia nella retorica del dolore, ma mantiene un equilibrio sottile tra partecipazione emotiva e sorveglianza formale. Come ha scritto Magris, «leggendo il libro si entra in un’officina del romanzo, in cui le varie situazioni narrative e le diverse figure scivolano come le parole del romanzo stesso, in un susseguirsi di eventi che si fondono nella narrazione».
Recensione di Sofia Crincoli
Roberto Ferrucci, Il mondo che ha fatto, 2025, La nave di Teseo, pp. 336, ISBN: 8834619811