“Gli albanesi si rifiutavano di provare vergogna di qualunque sorta. La sfuggivano fino ai margini estremi del mondo, e al tempo stesso dedicavano la vita a dimostrare che non avevano nulla di cui vergognarsi […] Da bambino, il primo sentimento che conobbi fu la vergogna.”

Il mio gatto Jugoslavia è il romanzo d’esordio di Pajtim Statovci, uscito nel 2014, ma pubblicato in Italia solo quest’anno, in seguito al successo ottenuto dalle sue opere successive: Le transizioni (Sellerio 2020) e Gli Invisibili (Sellerio 2021). L’autore, nato in Kosovo nel 1990 e trasferitosi in Finlandia con la famiglia fuggita dalla guerra quando aveva solo due anni, ha vinto numerosi premi, tra cui il prestigioso Finlandia Prize. 

È a partire dal suo vissuto che Statovci trae ispirazione per i suoi personaggi: Bekim è emigrato dal Kosovo assieme alla sua famiglia; vive nella Finlandia dei primi anni Duemila e studia filosofia. La sua quotidianità è segnata dalla vergogna: si vergogna del suo nome, della sua sessualità, delle sue origini, della palese estraneità della sua famiglia, della barriera linguistica e culturale che li contraddistingue come “altri”. Trascorre le giornate in solitudine, evitando qualsiasi rapporto sociale, presentandosi sotto falso nome pur di non essere visto come un kosovaro. Ma l’incontro con un gatto in un gay bar interrompe questo equilibrio: «”Nomen omen”, fece il gatto. “Lo sapevi? Il nome è un destino”».

Questo animale occhialuto è affascinante, loquace e capriccioso. Non ha riserve nell’esprimere critiche e giudizi pungenti; esige da Bekim tutto ciò che egli gli può dare. Ed è così che il giovane si ritrova catturato in una rete morbosa, incapace di allontanare questo essere che si stabilisce a casa sua. Per soddisfare le aspettative del gatto, si costruisce da capo una nuova identità: quella di un immigrato figlio di genitori di successo, con fratelli altrettanto invidiabili e un futuro brillante davanti. La perfetta immagine dello straniero integrato. Tuttavia, questa costruzione avviene attorno a un vuoto. A insinuarsi in ogni aspetto della vita del giovane c’è l’assenza di colui che con la sua presenza ha oppresso la seconda narratrice del romanzo: Emine.

Le vicende di Bekim e del suo gatto, infatti, si alternano a quelle di una giovane cresciuta in Jugoslavia negli anni di Tito. I sogni di una vita diversa da quella passata nelle campagne del Kosovo la portano ad ammirare un mondo estraneo al suo, arredato come le riviste di design occidentali che ama sfogliare nel tempo libero, e lontano, invece, dalla superstizione e dalla severità patriarcale di casa. Ma quando la sua bellezza attira l’attenzione di un uomo, quella che inizialmente sembrava una splendida via di fuga diventa un incubo che la porterà dall’altra parte d’Europa:

Mio padre diceva che nel mondo il male non esiste nella forma in cui noi lo immaginiamo. Mentre seguiva alla televisione le notizie sulla guerra in Kosovo, diceva che dovremmo usare un’altra parola per indicare il male: ignavia.

Le vite di madre e figlio così si intrecciano attorno a una figura violenta e fragile. Il grande assente del romanzo è un padre odiato, un marito subito: dal passato, le sue parole e i suoi gesti si insinuano nel presente dei protagonisti. La sua ombra è riflessa nei comportamenti di entrambi, tanto da ricostruirne costantemente la figura, impedendo loro di liberarsi dalla sua influenza. Tra le note surreali della storia di Bekim si inserisce, infatti, il quadro di un padre tragicamente violento, che alterna collera a vulnerabilità, malattia a orgoglio. Le scene incentrate sul rapporto tra padre e figlio (la cui memoria sopravvive ne Le transizioni) sono tra le più riuscite del romanzo e mostrano l’abilità dell’autore nell’evocare suoni, odori e ambienti; così come le parti narrate dalla madre, sono caratterizzate da uno spiccato realismo e forte tragicità, in contrasto con le creature fantastiche e gli elementi onirici che popolano le vicende di Bekim. 

Il mio gatto Jugoslavia guida il lettore in un viaggio dal Kosovo alla Finlandia, ripercorrendo, anche attraverso la presenza di animali dal forte valore simbolico, la crescita di chi cerca di attraversare sia il denso ricordo di una persona persa sia l’ostilità di un mondo ricco di pregiudizi, per riconquistare la propria libertà: «”Tienimi stretto”, chiese allora il gatto. “Perché senza occhiali non vedo niente davanti a me, vedo solo di lato, e solo luminosi colori pastello”».


Recensione di Chiara Coianiz

Pajtim Statovci, Il mio gatto Jugoslavia, traduzione dal finlandese di Nicola Rainò2024Selleriopp. 304ISBN: 9788838946073