
“Sento un freddo improvviso da cui neanche due maglioni e due cappotti possono ripararmi. Un gelo che sembra provenire non da fuori, ma dal mio petto. Il mio corpo è scosso dai brividi, e nell’istante in cui tutto nella stanza ondeggia al ritmo della fiamma che trema nella mia mano, capisco perché In-seon, quando gliel’ho chiesto, ha negato immediatamente ogni volontà di trarre un film da questa vicenda. Il tanfo di carne e vestiti intrisi di sangue che si decompongono insieme sarà cancellato, come la fosforescenza di ossa erose dai decenni. Gli incubi scivoleranno via tra le dita. La violenza al di là d’ogni limite sarà rimossa.”
Narrazione come argine all’oblio: questo è Non dico addio, romanzo di Han Kang incentrato sull’eccidio avvenuto sull’isola di Jeju nel 1948-1949. In piena concordanza con una tensione propria della narrativa nell’estremo contemporaneo e secondo una sensibilità già manifestata in Atti umani (2017), storia nazionale e finzione romanzesca sono infatti indissolubilmente collegate in quest’ultima pubblicazione della pluripremiata autrice sudcoreana.
Non dico addio si colloca come punto di arrivo – tanto cronologico, quanto di elaborazione formale – nella sua produzione: recentemente insignita del premio Nobel per la Letteratura 2024, Kang ha infatti esordito sulla scena letteraria negli anni novanta, cimentandosi dapprima con la poesia, per poi passare alla prosa e, nello specifico, alla stesura di racconti, saggi e romanzi. Tra questi ultimi si ricordano La vegetariana (2016), libro con cui ha vinto il Man Booker Prize ed è divenuta nota al pubblico internazionale, e il già citato Atti Umani, in quanto in Non dico addio tornano temi in essi centrali, quali rispettivamente i rapporti tra figure femminili e un’indagine sulla corporeità e i traumi storici e la loro messa in forma letteraria.
Il romanzo narra una storia piuttosto semplice: la protagonista Gyeong-ya, dopo aver ricevuto un messaggio dall’amica In-Seon, si reca in ospedale a trovarla e riceve da quest’ultima il compito di andare a casa sua per tentare di salvare il suo uccellino, mentre fuori imperversa una tempesta di neve. Ciò che però colpisce della narrazione è la continua fluttuazione dei confini tra sogno e realtà e tra passato e presente: Gyeong-ya è infatti sola per gran parte del romanzo, ma complici il suo malessere e la stanchezza, si abbandona spesso al sonno o all’allucinazione, stati di alterazione della coscienza che le permettono di raggiungere verità insondate sull’identità di In-Seon, sul rapporto di quest’ultima con la madre e sulla loro amicizia. Secondo Kang, Non dico addio è infatti «un romanzo d’amore», definizione che trova piena corrispondenza con la riscoperta dei legami affettivi in esso tematizzata, ma anche col recupero di pagine tragiche del passato della Corea del Sud, operazione che ha come motivazione diegetica il vissuto della madre di In-Seon: la protagonista si impegna infatti a riempire le lacune lasciate dalle narrazioni ufficiali e ad evitare che le vittime vengano dimenticate, secondo un proposito che dà il titolo all’opera.
Lo stile adottato dall’autrice oscilla come di consueto tra il crudo realismo e una certa rarefazione linguistica: il ricorso ad un lessico schiettamente sanguinolento non è infatti ascrivibile al mero gusto contemporaneo per il pulp, ma è al contrario funzionale alla restituzione di immagini non edulcorate delle stragi. Lo bilanciano spinte liriche che fanno leva, ad esempio, su elementi naturali del paesaggio: così la neve – vero e proprio leitmotiv del romanzo – è il manto leggero e impalpabile, metafora di fragilità e dimenticanza, laddove gli alberi – che compaiono spesso in forma umanizzata – simboleggiano presenza e memoria. Questi ultimi sono solo due degli aspetti che, con la loro ricorsività, tengono unita la narrazione, la quale risulterebbe altrimenti eccessivamente frammentata: la narratrice omodiegetica Gyeong-ya traccia infatti dei fili invisibili tra ciò che è stato e ciò che è, dislocando immagini traumatiche – come le dita amputate di In-Seon – o aspetti che la ossessionano tanto positivamente – come lo juk, uno dei pochi cibi che ancora le suscita appetito – quanto negativamente – come la marea che tutto oblia.
Il risultato è un romanzo in cui il desiderio di gettare luce sul passato collettivo e di ricomporre l’informità delle testimonianze e degli eventi si ripercuote sulla vita emotiva e psichica della protagonista, la quale sin dall’inizio della narrazione constata:
quel mare livido che saliva, strappando le ossa alle loro sepolture, probabilmente non c’entrava nulla con le vittime del massacro e il periodo successivo. Poteva anche trattarsi di un semplice presagio personale. Forse quel paesaggio di tombe sommerse e lapidi silenziose mi stava rivelando cosa aspettarmi dalla mia vita in futuro.
Ovvero, precisamente adesso.
Recensione di Serena Scolari
Han Kang, Non dico addio, traduzione dal coreano di Lia Iovenitti, 2024, Adelphi, pp. 265, ISBN: 9788845939327